L’intervista: 2 giugno '46, il racconto di Giovanni Bernardini

Nel 70esimo anniversario del referendum che sancì la vittoria della Repubblica, le lucide memorie di un grande intellettuale, testimone di quello storico evento: “In piazza Falconieri si inneggiava al re. E quando parlavano i repubblicani, risuonavano le campane della chiesa”, ricorda Bernardini.

A Monteroni vinse quindi la monarchia. E in provincia di Lecce spopolò con l’85% dei consensi. 
Sono passati settant’anni dal 2 giugno 1946, data di nascita della Repubblica italiana. Settant’anni da quel  referendum popolare spartiacque tra monarchia e repubblica. Il popolo decise il proprio futuro nel segreto dell’urna. In Provincia di Lecce fu un plebiscito pro monarchia, che raccolse 234.459 consensi pari all’85%. La repubblica si fermò a 41.370 suffragi, appena il 15%. La monarchia spopolò anche a Monteroni. E in paese vivono 56 persone che all’epoca del referendum avevano compiuto i 21 anni (la maggiore età di allora) e avevano quindi diritto al voto: oggi hanno tra i 91 e i 102 anni. E rappresentano l’ultimo ricordo diretto di quella storica giornata. Solo una minoranza di monteronesi scelse la Repubblica, tra questi Giovanni Bernardini, 93 anni, poeta e scrittore, sindaco a cavallo tra gli anni ’92 e ’93, tra i maggiori intellettuali di questa terra. Padre monteronese, madre abruzzese. Lo abbiamo incontrato nella sua abitazione di piazza Falconieri. Il suo è un ricordo lucido, indelebile, solcato dalle lacrime e dall’emozione. Un ricordo che nemmeno il tempo è riuscito a sbiadire.      

 Professore Bernardini, cosa ricorda di quel 2 giugno 1946?
Ero già a Monteroni, arrivai dal nord l’11 maggio 1945. Votai qui, mi pare nella scuola elementare di via Mazzini. Furono giornate di grande rabbia: perché chi aveva vissuto l’esperienza della guerra non poteva certamente orientarsi per un voto alla monarchia. Io e pochi altri, purtroppo, a Monteroni, consideravamo non solo le grandi responsabilità del fascismo, ma la complicità della monarchia con il fascismo. In particolare mia madre ed io avevamo vissuto a Pescara giornate assai drammatiche. Il 31 agosto del 1943 subimmo il primo bombardamento aereo da parte dell’aviazione americana. Fu un massacro. Poi seguì il periodo dell’armistizio. E mentre noi poveri sfollati percorrevamo le vie verso l’interno dell’Abruzzo, con un piccolo carico di valigie e masserizie, gli spitfire inglesi scendevano a mitragliarci. Eravamo sotto il fuoco di fascisti, tedeschi e alleati. A poca distanza da noi Vittorio Emanuele III e Badoglio fuggivano in macchina verso Sud, lasciando allo sbaraglio l’esercito e la popolazione. Come si poteva essere monarchici?

Tornando al referendum del 1946, a Monteroni come si svolse la campagna elettorale?
In piazza Falconieri si tenevano i comizi. E quelli dei monarchici erano sempre pienissimi. La piazza era occupata completamente da gente che aveva sofferto la fame ma non i bombardamenti. E ricordo che la folla gridava: “Viva lu tata nuesciu ca ni tae lu pane”. Inneggiavano al re, “lu tata” era Vittorio Emanuele. E io e mia madre facevamo “sangue acido”. Erano monarchici perché non avevano vissuto l’esperienza di quella guerra che dopo l’8 settembre diventò ancora più tragica e si risolse in guerra civile. Ecco perché la monarchia prevalse al Sud. A Monteroni eravamo pochi a tifare repubblica: in prima linea c’erano il farmacista Nicolini, l’amico Mario Calasso e Battista Civino. Pochi altri. Io avevo 23 anni, ma non riuscivo ancora ad affrontare un comizio. Dal balcone dell’abitazione che si trovava al di sopra dell’attuale tabaccheria De Tommasi piazzammo un altoparlante. E io dall’interno della casa, con il microfono in mano  e senza farmi vedere, lanciai un appello a favore della Repubblica. E ricordo che spesso i comizi dei repubblicani venivano disturbati dal suono delle campane. La Chiesa era su altre posizioni. E lo faceva capire. 

E fu uno storico appuntamento con le urne, quello per il referendum e l’Assemblea costituente, anche perché per la prima volta votarono pure le donne…
In casa ero l’unico uomo e vivevo con quattro zie nubili e mia madre vedova. Mia madre sicuramente votò repubblica. Le mie zie probabilmente, ma non ne sono certo. Maria Teresa, che ci ha lasciati qualche anno fa, invece era la mia fidanzata, che diventò poi mia moglie. Lei era combattuta tra il sottoscritto che votava repubblica e suo padre che era coerentemente monarchico. Mio suocero era farmacista ed era stato richiamato nel regio esercito col grado di maggiore. Fu inviato in Montenegro, dove ritornò anche dopo l’8 settembre per non abbandonare i suoi soldati. Fu catturato e fu fatto prigioniero in vari campi di concentramento. E come si rifiutò di aderire alla Repubblica sociale italiana, rifiutò anche di votare Repubblica, rimanendo fedele alla monarchia. La mia fidanzata, stretta tra due indicazioni opposte, quella mia e quella di suo padre, si impappinò per l’emozione e alla fine lasciò scheda bianca. Per l’Assemblea costituente invece votò come votai io. Ricordo che decisi di votare per il Partito Repubblicano esprimendo la preferenza per il conte Sforza, che era stato e sarebbe poi divenuto nuovamente ministro degli Esteri. 

Professore, dopo 70 anni l’Italia può definirsi una democrazia compiuta?
Io sono estremamente deluso. Il mio pessimismo generale che investe un po’ tutta la vita e la condizione umana si è forse esteso anche alla politica, nella quale credo di essermi impegnato anche con qualche rischio. Adesso sono profondamente deluso. Mi rivolgo soprattutto ai giovani, forse questo non dovrei dirlo, ma non posso tacere i miei convincimenti: la storia non insegna nulla.

E quale appello si sente di lanciare a chi la democrazia non l’ha conquistata, ma l’ha ricevuta sin dalla nascita?
Mi rivolgo ai giovani e a tutti: non dimentichiamoci mai del sangue versato, di quanto sangue è stato versato per la libertà. Con la politica e l’impegno civile possono sopravvivere i valori: possiamo costruire una repubblica democraticamente matura, ma anche una società, un’umanità solidale e fraterna.

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