Mons. Semeraro all’omelia della Messa crismale: Dio sa usare anche i vasi rotti

In tutte le cattedrali del mondo, nella mattinata del Giovedì santo, primo giorno del Triduo pasquale, il vescovo presiede la Messa crismale durante la quale consacra il Crisma, olio profumato e aromatizzato che viene utilizzato per la celebrazioni dei sacramenti

(battesimo, cresima, ordine sacro) e benedice l’Olio dei catecumeni (anch’esso utilizzato nel rito del battesimo) e l’Olio degli infermi (Unzione degli infermi). Il monteronese Marcello Semeraro, vescovo di Albano laziale,  ha presieduto la solenne concelebrazione cui hanno partecipato tutti i sacerdoti della diocesi. Tema ricorrente dell’omelia che mons. Semeraro ha pronunciato stamattina è stata un’espressione di San Bernardo: Unxit ut ungeret (Unse perché ungesse). “San Bernardo – ha detto Semeraro - commentava così il passo del profeta Isaia, che Gesù legge nella sinagoga di Nazareth. Il Padre unse Gesù perché ungesse a sua volta; così egli venne «a ungere le nostre piaghe e lenire i nostri dolori; perciò venne unto, venne mansueto, mite e ricco di misericordia» (In Cant. Cantic. XVI,13). Oggi, celebrando questa Messa che per più ragioni è singolare fra tutte, contempliamo insieme il mistero di questa unzione. È un mistero che coinvolge ciascuno di noi nella grazia del Battesimo. Nell’unzione c’è la radice di ogni nostra fioritura per frutti di vita eterna. L’unzione è il terreno che feconda tutte le nostre diverse vocazioni”.

Più avanti, poi, per spiegare la fragilità della condizione umana, accolta così com’è dalla misericordia di Dio, si affida ad una fiaba indiana: “C’è una favola indiana, che desidero ripetervi come metafora dell’amore di Dio per noi. Racconta di un portatore d’acqua che aveva due grandi vasi, ciascuno sospeso alle estremità del palo che portava sulle spalle. Uno dei vasi aveva una crepa; l’altro, invece, era intatto. Al termine del lungo percorso che l’uomo faceva dal ruscello sino a casa, il vaso integro arrivava colmo di tutta l’acqua raccolta; quello incrinato, al contrario, ne conteneva meno della metà. Questo andò avanti per molto tempo. Il vaso intatto era, ovviamente, orgoglioso dei propri risultati; il vaso rotto, all’opposto, si vergognava del proprio difetto: si sentiva proprio un fallito perché riusciva a compiere solo una parte del suo compito. Un giorno, allora, si decise a parlare al portatore d’acqua e gli disse: «mi vergogno di me stesso perché, a causa della crepa che ho nel fianco, riesco a darti appena la metà del mio carico. Il resto dell’acqua, infatti, se ne esce durante tutta la strada fino a casa tua. A causa dei miei difetti, non c’è proporzione fra i tuoi sforzi e i risultati». Il portatore d’acqua gli rispose: «Ma non hai notato che dalla tua parte del sentiero ci sono tanti fiori, mentre dalla parte dell’altro vaso non c’è nulla? Io ho sempre saputo del tuo difetto e così dal tuo lato lungo il sentiero ho piantato semi di fiori. Ogni giorno, mentre torniamo, tu li annacqui ed è così che riesco a raccogliere sempre dei fiori per decorare la mia tavola. Senza il tuo essere semplicemente come sei, non ci sarebbero fiori così belli ad ornare la mia casa». Tutti noi – ha concluso il vescovo monteronese - siamo quel vaso incrinato e Dio ci usa così come siamo. Egli sa usare i vasi rotti! Non dobbiamo, perciò, avere paura delle nostre debolezze”.

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